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Paura di perdere una persona, come si cura l’amore morboso e quali sono le cause

Cos’è una dipendenza affettiva

Il concetto di dipendenza può essere riferito anche alle relazioni. Le caratteristiche della dipendenza, ovvero la tolleranza (passare sempre più tempo con quella persona), astinenza ( stare male in sua assenza), incapacità di interrompere la relazione pur rendendosi conto degli effetti negativi che comporta, interruzione  o riduzione delle attività sociali e lavorative, si presentano anche nelle relazioni patologiche, un amore morboso in cui uno è dipendente dall’altro, percependosi come incapace di costruire una propria vita e individualità al di fuori del legame con la persona in questione.

Questo tipo di relazioni sono anche denominate “tossiche” perchè non portano ad una crescita dei membri della coppia, come in una coppia sana dovrebbe essere, ma si basano su dinamiche improntate sulla necessità di controllo, possesso, dimostrazioni e continue ricerche di rassicurazione. La dipendenza affettiva si può presentare anche come ossessione per un uomo oppure per una donna a cui si dedica gran parte dei propri pensieri durante la giornata.

Sintomi

Come in ogni dipendenza c’è una componente compulsiva (che porta a reiterare il comportamento, in questo caso lo stare con una determinata persona a qualsiasi costo) perchè così facendo viene colmato un vuoto, sedata un’ansia o paura che spesso è legata alla percezione di non avere un proprio valore, alla convinzione di non riuscire a vivere autonomamente.

ci sono alcuni elementi che caratterizzano le dipendenze affettive

  • Presenza di manipolazione affettiva: la manipolazione è l’altra faccia della medaglia della dipendenza e caratterizza, per la maggior parte dei casi, il partner scelto da chi è dipendente. Proprio la complementarietà tra chi ha bisogno di dominare e chi cerca una sicurezza da cui dipendere porta all’incontro tra due personalità non equilibrate e alla formazione, poi, di una coppia che nulla ha di sano. La manipolazione è per lo più esercitata a livello verbale o con azioni simboliche che hanno la finalità di minare continuamente la sicurezza del partner al fine di renderlo sempre più insicuro e, dunque, dipendente.
  • Assenza di autostima e autoefficacia personali: chi sviluppa una relazione di dipendenza affettiva si percepisce come un naufrago incapace di nuotare, disposto a tutto pur di poter avere una “zattera” che gli garantisca la sopravvivenza. La sensazione alla base è quella di non “essere abbastanza” di non valere, di non potersi permettere desideri e ambizioni proprie perchè tanto non sarebbe in grado di realizzarle. Tutto ciò porta a anche ad una “gelosia patologica“.
  • Incapacità di “dire no”: in conseguenza della mancanza di autostima una delle “strategie” che si sviluppano è quella di essere estremamente disponibili, accoglienti, capaci di soddisfare desideri, bisogni e aspettative del partner per timore che altrimenti possa andarsene. L’incapacità a dire “no” può arrivare a toccare anche punte molto estreme come nei casi in cui ci si acconsente a comportamenti violenti nei propri confronti o in quelli dei figli senza ribellarsi.
  • Mancanza di un progetto comune: una coppia di questo genere non ha una capacità “progettuale”, non ci sono desideri, sogni, interessi , condivisioni ma solo necessità da soddisfare, continua tensioni, sensi di colpa, paura , necessità di controllare continuamente il partner per mancanza di fiducia.

Cause

Nella terapia psicologica che si utilizza per risolvere problematiche del genere non si parla molto delle “cause” di un problema, poiché la mera ricerca di cosa ha causato una situazione , purtroppo, non necessariamente la risolve, anzi. La maggior parte delle persone sa cosa lo spinge a comportarsi in un certo modo ma non riesce comunque a fare diversamente.

La razionalizzazione di una situazione che è primariamente emozionale e percettiva non è la chiave vincente per trovare una soluzione. Inoltre una situazione come quella di chi si ritrova in una relazione “tossica” o e di dipendenza non è spiegabile con una causa diretta (poiché mi è successo questo…allora sono così…). C’è una complessità di fondo che prevede l’interazione di tutta una serie di variabili ( genetiche, familiari, di personalità, sociali..) che si interfacciano tra loro creando scenari sempre diversi.

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Come muoversi, allora, in questo scenario così variegato? Nella terapia psicologica si utilizzano i “riduttori di complessità” : dei costrutti che il terapeuta utilizza per comprendere il funzionamento specifico della situazione narrata dal paziente e, in particolare, come il disturbo si sia strutturato e si mantenga nel tempo. Il riduttore di complessità più utilizzato è , senza dubbio, quello delle “tentate soluzioni”, ovvero ciò che una persona fa per risolvere una situazione di difficoltà e che, se reiterato nel tempo, invece di portare a soluzione, rinforza e peggiora la difficoltà stessa.

Alcune tentate soluzioni trasversali che, negli anni abbiamo potuto notare in chi vive una relazione di dipendenza affettiva, sono le seguenti:

  • controllare il partner ( arrivando anche ad una gelosia patologica)
  • nascondere all’esterno alcune situazioni della propria vita di coppia che verrebbero criticate o non condivise
  • compiacere il partner per evitare di farlo arrabbiare
  • tendenza ad isolarsi
  • mancanza di progetti personali al di fuori della vita di coppia e familiare
  • giustificare ogni eccesso del partner sia con se stesso che con figli e altri familiari

Un secondo riduttore di complessità utilizzato è l’emozione di base presente nel paziente.
Quale emozione porta la persona a rimanere in una relazione di dipendenza affettiva? La paura di rimanere sola? La rabbia sottostante verso qualcuno a cui devo dimostrare qualcosa? Un dolore vissuto o temuto che viene lenito solo dalla presenza del partner? Un piacere compulsivo e irresistibile al quale non so rinunciare?

E’ molto importante, per impostare un intervento efficace partire dall’analisi personalizzata di questi due costrutti: le tentate soluzioni agite e l’emozione di base che c’è dietro. Per ciascuno di essi ci sono strumenti specifici che vanno adottati e personalizzati.

Come uscire dalla dipendenza affettiva

Il tentativo più diffuso che viene fatto da parte di amici e familiari è quello di parlare mostrando le prove razionali della dipendenza ( evidente ai loro occhi) e della presunta capacità che la persona avrebbe di staccarsi e vivere una vita propria. Questi tentativi di ragionamento razionale però spesso si scontrano con una sensazione di paura e vuoto che, invece di razionale non ha nulla e che, di conseguenza, non riescono a scalfire la percezione della persona e a smuoverla. Proprio la frustrazione conseguente al non sentirsi ascoltati porta, in molti casi, ad un allontanamento o ad una rottura della relazione.

Da una dipendenza affettiva si esce con una terapia psicologica che ha come obiettivo quello di portare la persona a rafforzare la propria sensazione di autoefficacia e capacità, attraverso un percorso ben definito che la aiuterà a vivere con un nuovo equilibrio le relazioni affettive.
La cosa più difficile è ristrutturare la percezione della manipolazione, poichè chi soffre di dipendenza tende davvero a non riconoscere segnali di manipolazione, sopraffazione e violenza come sbagliati in quanto li lega sempre a proprie mancanze.

E’ un modo per giustificare a se stessi il fatto di accettare comportamenti che altre persone, al di fuori, definiscono errati e inaccettabili.
Per far crescere l’autostima, infatti, è necessario prima di ogni altra cosa interrompere il “legame tossico” di dipendenza che, proprio con il suo sussistere, mina alla base ogni tipo di sicurezza che la persona tenta di costruirsi con fatica.
In questo caso la terapia breve strategica, ovvero una serie limitata di sedute di psicoterapia, può portare risultati in tempi veloci per quanto riguarda questo primo obiettivo ( abbandonare la relazione tossica) , poi occorreranno dei tempi più lunghi per accompagnare la persona in un periodo di costruzione e ricostruzione di se stessa e di un nuovo contesto di vita.

Testimonianza

di seguito riporto la testimonianza di una paziente che ho curato da una dipendenza affettiva molto grave.

R. è una giovane donna di 35 anni di bell’aspetto. Chiede un primo appuntamento per un colloquio con una vaga richiesta di “sensazione di essere bloccata nella vita“. Mi racconta di vari malesseri fisici legati a scatti di rabbia improvvisi e al fatto che da qualche tempo si sente insofferente ma senza sapere bene il perchè. Solo dopo un’attenta indagine emerge la relaziono con il fidanzato, che va avanti da 10 anni e con cui convive da 4. Una relazione che da qualche tempo è vuota, spenta e fredda, almeno per lei, ma che rappresenta una sicurezza di cui teme non saprebbe mai fare a meno.

Lui, un ragazzo semplice e concreto, ha in mano tutte le decisioni, dalla casa da comprare, a dove e quando fare i viaggi, fino a cosa mangiare ai pasti. Questo non perchè lo imponga, ma perchè per lei “è tutto uguale“. “Sono così disabituata a chiedermi cosa voglio che mi adatto a quello che va bene agli altri“, mi dice. E questo, ovviamente, è un comportamento appreso nella sua famiglia di origine, dove, a motivo di una serie di situazioni complicate, una buona parola veniva meritata solo se ci si mostrava tranquilli e mai lamentosi. Lei è cresciuta cercando sempre di “accontentare tutti” senza mai ascoltare veramente se stessa, fare selle scelte e portare aventi dei progetti personali.

Anche sul lavoro non ricopre il ruolo per il quale ha studiato ma è diventata ,con il tempo, quella che si occupa di tutto perchè “tanto non dico mai di no“.

In questo caso, in realtà, a livello terapeutico è stato necessario aiutarla a sbloccare questa “prostituzione relazionale” (faccio contenti tutti in cambio di un pò di sicurezza e affetto) e insegnarle ad ascoltarsi per fare, poi, delle scelte in armonia con i propri desideri. Una delle manovre che hanno sbloccato la situazione è stato l’esercizio del “piccolo No quotidiano” che si usa, in casi come questo, per far sperimentare la persona nella graduale espressione del dissenso e dei rischi di rifiuto che questo può comportare.

Nel giro di qualche mese, R. è stata in grado di riprendere un contatto con se stessa: ha interrotto la relazione che non aveva il coraggio di rompere da tempo, si è ritagliata un nuovo e più appropriato ruolo lavorativo riuscendo ad interrompere alcuni automatismi in cui era incastrata da anni e ora sta avviando, con molto tranquillità e senza fretta una nuova relazione in cui si sente protagonista.